Vietato salvarsi
Dal Memorandum Italia-Libia alle carceri italiane: la vita come crimine, la violenza come diritto.
Il 2 novembre era il termine ultimo per impedire il rinnovo automatico del Memorandum Italia-Libia. Una scadenza scivolata nel silenzio del governo italiano, che garantisce così altri tre anni di stipendio alle milizie travestite da guardia costiera: le stesse responsabili di omicidi, stupri, torture e rapimenti. Secondo l’ultimo rapporto della Seawatch, negli otto anni di vita dell’accordo sono stati documentati almeno 72 episodi di violenza in mare, nei quali compaiono anche le stesse motovedette donate dall’Italia alla Libia.
E così, nel nome di Almasri — liberato dall’Italia e infine arrestato il 5 novembre dalle autorità libiche (!) — e nel nome di tanti altri come lui, l’intesa continua: si criminalizza non chi viola ogni diritto umano fondamentale, ma chi rivendica uno spazio di autodeterminazione e libertà di movimento.
È il paradosso vissuto dalle oltre 3.200 persone arrestate negli ultimi dieci anni come presunti scafisti, perlopiù senza alcun legame con reti criminali. Tra loro c’è Alaa Faraj, autore di Perché ero ragazzo (Sellerio, 2025). Questa newsletter voglio dedicarla al suo racconto e all’opera piena di luce, di gentilezza e di sentimento che ci ha regalato, nonostante l’incredibile sofferenza che l’attraversa.
La storia di Alaa comincia prima del Memorandum, ma è emblematica della disumana sproporzione che colpisce tante persone migranti, anche quando i giudici stessi le definiscono “l’ultima ruota di un mostruoso ingranaggio”, niente più che “improvvisati scafisti”.
Nel suo libro, Faraj ricostruisce tutto: il sogno di studiare ingegneria e di diventare calciatore, la guerra che ha cancellato ogni possibilità di futuro, la decisione di partire. Ha 19 anni nel 2015, quando, dopo aver atteso inutilmente i visti per l’Europa, decide di imbarcarsi con i suoi amici. Ma durante la traversata, succede una tragedia. Quarantanove persone muoiono per asfissia: è la “strage di Ferragosto”. Una testimonianza confusa, raccolta subito dopo lo sbarco, secondo cui sarebbe stato visto passare a bordo delle bottigliette d’acqua, basta per accusarlo di aver parte dell’equipaggio. Dopo anni di attesa e trasferimenti arriva la sentenza: trent’anni di carcere.
Perché ero ragazzo nasce dalle lettere che Alaa ha scritto ad Alessandra Sciurba, docente di Giurisprudenza a Palermo. Non è un libro di rabbia, ma di trasformazione: “Quando imparo — scrive — la mia rabbia si scioglie.” La sua lingua — un italiano studiato in prigione, con pennellate di arabo e siciliano — cresce con lui: più precisa, più consapevole, più profonda. Attraverso la scrittura, Faraj si riappropria della voce e dell’identità cancellate dal linguaggio giudiziario. Dietro le sbarre costruisce un romanzo di formazione: studia, lavora, sogna, si iscrive all’università. Non accetta il ruolo di criminale né quello di vittima: trasforma la conoscenza in resistenza.
Ma il senso di ingiustizia brucia in ogni pagina, anche perché il suo caso è solo uno tra migliaia.
A determinarne il destino, come quello di molti altri, è l’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione, nato per colpire i trafficanti e finito per punire chi rivendica il diritto a una vita migliore. In teoria la legge distingue tra chi organizza il traffico di esseri umani e chi favorisce l’ingresso irregolare senza scopo di lucro. In pratica la differenza si perde nei tribunali, con pene che arrivano fino a trent’anni o all’ergastolo anche per chi ha solo tenuto il timone per necessità.
Secondo il report di Arci Porco Rosso e ASGI, la grande maggioranza delle persone accusate sono ragazzi e uomini diventati “capitani per necessità”: chi regge la bussola per sopravvivere, chi si alterna alla guida quando il motore si ferma, chi viene identificato per sbaglio. Le sentenze raramente considerano la coercizione o l’assenza di profitto: le pene si basano sulla “pericolosità del viaggio” — il numero di persone, la precarietà del mezzo — più che sull’intento di chi lo ha compiuto.
È accaduto a Maysoon Majidi, attivista curdo-iraniana fuggita dal suo Paese e incarcerata a Crotone per dieci mesi. Accusata anche lei di aver passato cibo e acqua durante la traversata, è stata assolta nel febbraio 2025: il Tribunale ha riconosciuto l’assenza di dolo e lo stato di necessità. Ma la Procura ha poi impugnato la sentenza, segno di una riluttanza istituzionale ad accettare un precedente che separi la fuga dal traffico organizzato. Anche dopo l’assoluzione, l’ingiustizia continua.
Una storia simile è quella di Marjan Jamali e Amir Babai, iraniani accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dopo lo sbarco in Calabria. Le accuse, basate su testimonianze poi smentite, provenivano da tre persone che avevano tentato di aggredire Jamali durante la traversata. Nel giugno 2025 il Tribunale di Locri l’ha assolta, ma ha condannato invece Babai — che l’aveva difesa — a sei anni di reclusione. A ottobre la Procura non ha presentato appello: un silenzioso riconoscimento dell’errore giudiziario. Marjan è libera dopo 500 giorni di detenzione — durante i quali è stata costretta a stare lontana dal figlio piccolo, con il quale era fuggita — ma rimane la fragilità dei processi per “scafismo”: verdetti incoerenti, prove deboli, giustizia piegata ai pregiudizi. Una forma istituzionalizzata di discriminazione che si gioca sulla pelle e sulla vita delle persone.
Un altro caso emblematico di ingiustizia strutturale riguarda tre giovani del Sud Sudan, arrestati nell’agosto 2023 subito dopo lo sbarco a Napoli. Avevano preso il timone di un gommone alla deriva per portare tutti in salvo, ma sono stati accusati di essere “scafisti” e rinchiusi a Poggioreale per oltre cinque mesi in detenzione cautelare. Una misura giustificata dall’assenza di una dimora stabile, trasformata in prova di colpevolezza. La difesa, sostenuta da ASGI e Arci Porco Rosso, ha ricordato che avevano agito in stato di necessità, senza fini di profitto. Ma nel diritto penale applicato ai migranti questo non basta: guidare un’imbarcazione verso l’Europa resta un reato, anche se da quell’azione dipende la vita di tutti.
Al fondo di tutte queste storie, c’è un unico filo: la volontà di non rinunciare al diritto alla vita, anche quando ogni scelta sembra un crimine. Il Memorandum Italia-Libia, con i suoi rinnovi automatici e le sue omissioni di responsabilità, continua a finanziare un sistema che punisce la fuga più della violenza da cui si fugge. Il prezzo si paga nelle celle italiane e libiche, nei corpi e nei nomi che nessuno conosce.
Ed è per questo che tutti e tutte dovremmo leggere Perché ero ragazzo di Alaa Faraj: per fare da eco alla sua storia e a quella delle oltre 1.300 persone rinchiuse nelle carceri italiane con simili accuse. Foglio dopo foglio, scrivendo a mano, in stampatello, Faraj esercita il puro diritto di raccontarsi, diventando uno scrittore che accompagna il lettore attraverso emozioni e vissuti, con ritmo narrativo e consapevolezza. Leggiamolo e rileggiamolo, per non dimenticare, in questi altri tre anni di Memorandum, di non farci abbagliare dalla criminalizzazione della speranza.



